Non sarò mai abbastanza cinico
da smettere di credere
che il mondo possa essere
migliore di com’è
Ma non sarò neanche tanto stupido
da credere che il mondo possa crescere
se non parto da me.– Brunori Sas, “Il costume da Torero”.
La sostenibilità è un processo, un’operazione continua, un impegno costante nel chiedersi:
Queste domande implicano una ricerca che non si esaurisce e un mettersi in discussione costante, perché a problemi complessi non si possono dare risposte semplici.
Cercheremo di parlare di sostenibilità attraverso la quotidianità, ma con l’obiettivo anche di capire come le nostre azioni quotidiane si integrano e si relazionano con le questioni più discusse quando si parla di crisi climatica, giustizia ambientale, biodiversità.
Molto spesso accade di non rendersi conto che un’azione da sola non basta e mentre si pensa di fare del bene, in realtà non si sta avendo un reale impatto o non si sta centrando il punto.
La sostenibilità è un gioco di squadra:
È facile urlare alla sostenibilità, è un po’ meno facile praticarla davvero.
Le risposte semplici, che offrono una soluzione definitiva ai problemi, tendono ad essere parziali, fallaci, a volte poco rilevanti se vogliamo davvero cambiare le cose.
Qui di seguito abbiamo elencato alcune buone pratiche, che però non vanno generalizzate per i motivi che abbiamo scritto sopra. Sono pratiche che è bene integrare, sulle quali è utile essere informati e consapevoli.
La plastica è diventata il simbolo della lotta per la giustizia ambientale e climatica e oggi la necessità di ridurne la diffusione è urgente: il riciclo è una soluzione troppo lenta, non sufficiente se presa da sola.
Si stima che la produzione di plastica sia aumentata di 20 volte rispetto agli anni Sessanta: i dati (aggiornati al 2018) ci dicono che si aggira intorno ai 350 milioni di tonnellate e che nei prossimi 20 anni raddoppierà.
L’uso principale della plastica è per gli imballaggi (circa il 26% del volume totale prodotto) e l’impatto ambientale di questo materiale è enorme: circa il 90% della plastica viene da materie prime fossili vergini, per produrla si consuma circa il 6% del petrolio venduto globalmente.
Quando la plastica si degrada si rompe in particelle, note come microplastiche: si tratta di minuscoli pezzi di plastica che, una volta dispersi nell’ambiente, sono irrecuperabili.
Per alcuni consigli su come ridurre l’utilizzo di plastica nelle nostre vite quotidiane, vi rimandiamo ai contenuti che abbiamo pubblicato per il Plastic Free July, quando le nostre ragazze in Servizio Civile, Eva, Sara e Sofia, hanno raccolto alcune alternative e ce le hanno spiegate. Trovate tutto a questo link.
Va tenuto presente però anche che ci sono dei casi nei quali sarebbe peggio (ad esempio per la nostra salute) rimuoverla, o comunque non avrebbe un reale impatto sull’ambiente. Condannare la plastica è utile se ci si concentra su azioni che siano qualitativamente e quantitativamente efficaci: non bisogna solo fare qualcosa, bisogna farlo bene.
Vi facciamo anche un esempio: è una buona abitudine (e sta andando anche molto di moda) utilizzare cosmetici solidi, che non hanno il packaging in plastica. Tuttavia, sarà capitato a tutti, non sempre uno shampoo solido è efficace nel lavaggio alla pari di uno shampoo liquido. Magari secca il capello, non ci lascia una sensazione di pulito e così ci “obbliga” a lavarci i capelli più spesso.
I cosmetici solidi hanno anche un altro vantaggio: pesano meno (perché non contengono acqua) e per trasportarli si emette meno CO2. Ma quando si fa la doccia ci sono anche altri fattori che hanno un impatto ambientale negativo non trascurabile (più impattanti rispetto all’utilizzo o meno di un flacone in plastica). Quanta acqua utilizziamo per la durata della doccia, quanta energia utilizziamo per scaldare l’acqua, (la temperatura ci laviamo). Se l’energia che utilizziamo è da fonti rinnovabili o no; e va da sé che incide anche quanto spesso facciamo la doccia.
Da un recente articolo di Altroconsumo è emerso proprio questo, e cioè che utilizzare un cosmetico solido è una buona pratica solo se soddisfa anche altre condizioni:
Attualmente il modello energetico prevalente è quello dei combustibili fossili, che oltre a non essere sostenibile da un punto di vista ambientale, è causa di forti disuguaglianze socio-economiche.
I combustibili fossili (i più noti fra tutti il petrolio e il carbone) sono la principale causa della crisi climatica. Oltretutto, queste fonti non sono rinnovabili e scarseggiano sempre di più, con conseguente aumento dei costi, sia per l’estrazione che per la commercializzazione e l’utilizzo.
Si tratta di un settore industriale molto redditizio, al quale le grandi aziende continuano a strizzare l’occhio, affascinate dalla possibilità di enormi guadagni. Ma aspettare ancora tanto per ridurre l’uso dei combustibili fossili significa perdere l’ultima possibilità di assicurarci un futuro vivibile.
Il rapporto del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Ipcc) afferma che le emissioni di anidride carbonica devono essere almeno dimezzate entro il 2030, cosa che sembra non stia accadendo.
Si parla sempre di più della necessità di una transizione ecologica verso fonti rinnovabili ed energia pulita (solare, eolica, idroelettrica), per ridurre le emissioni di gas climalteranti.
In Italia devono essere installati entro il 2030 abbastanza impianti, tra fotovoltaico ed eolico, da poter fornire almeno 70 GigaWatt di potenza energetica.
Sui benefici, le difficoltà e le possibili soluzioni del fotovoltaico in Italia vi segnaliamo un articolo di Ilaria Sesana, sul numero di maggio della rivista Altreconomia.
Sesana ci offre una panoramica molto chiara nella quale coesistono fattori e problematiche diversi:
Il settore del cibo è responsabile di circa il 30-35% delle emissioni di gas serra da parte dell’uomo, questo implica che la nostra impronta carbonica individuale è largamente legata alle nostre abitudini alimentari.
L’impronta carbonica è il parametro che viene utilizzato per stimare le emissioni gas serra ed è un calcolabile anche sul singolo individuo. L’emissione di questi gas può essere consapevole oppure no, ma in entrambi i casi dipende dalle nostre abitudini e dai nostri stili di vita.
Quando parliamo di alimentazione infatti dobbiamo pensare anche a tutte le attività e i servizi che riguardano la produzione e la distribuzione del cibo: il consumo del suolo, la produzione agricola, il trasporto, la trasformazione dei prodotti, il mantenimento degli allevamenti…
Un aspetto molto importante è quello del “livello trofico” di un alimento, che, semplificando, corrisponde alla posizione nella catena alimentare. Cioè maggiore è il livello trofico di un alimento, maggiore è la sua impronta di carbonio. Facciamo un esempio: un animale che si ciba di altri animali avrà un livello trofico più alto rispetto ad una pianta.
La conseguenza più chiara è che una dieta è tanto più sostenibile quanto più si basa sul consumo di prodotti vegetali. Questo non implica necessariamente un vegetarianismo o un veganismo radicale, è sufficiente cambiare le proporzioni, cioè mangiare meno carne e pesce, e fare attenzione alle condizioni di produzione del cibo.
Uno studio del Politecnico di Milano ha provato a proporre diete a basso impatto, valutando per ogni ingrediente sia le sue proprietà nutritive che la disponibilità di quell’alimento nel territorio, tenendo però conto anche dell’importanza culturale del cibo, soprattutto in una tradizione come quella italiana.
Potete trovare l’articolo intero sulla rivista Altreconomia, a questo link.
Stiamo per dirvi una cosa che sicuramente alcuni di voi già sapranno, ma allo stesso tempo è probabile che alcuni e alcune di voi siano invece incappati in un’ambiguità molto diffusa.
Quando sentiamo dire che “le api sono in pericolo” è vero, però la parola “ape” viene utilizzata per indicare sia tutte le specie di api selvatiche sia per indicare l’ape mellifera, cioè quella che produce il miele.
L’ape mellifera è quella “domestica”, che l’uomo ha imparato ad allevare per avere il miele. Questa tipologia non è in pericolo: si tratta dell’unica specie la cui popolazione è in crescita.
Le migliaia di specie selvatiche di api sono in pericolo a causa dell’azione umana sui loro habitat naturali. Le api selvatiche sono approssimativamente più di 20mila specie diverse.
È la grande varietà di specie di insetti impollinatori, tra cui le api selvatiche, che aiuta a preservare la biodiversità.
Adottare un alveare e comprare il miele da un produttore locale aiuta i piccoli apicoltori, supportandoli nella loro attività. Inoltre ciò garantisce loro maggiori risorse per gestire problematiche (come le malattie che affliggono le api).
Ma per salvare le api selvatiche, che sono a rischio di estinzione, le azioni più efficaci sono altre, ad esempio:
Questo articolo sarà in continuo aggiornamento e cercheremo di darvi sempre degli strumenti utili e chiari per capire.
Se ci sono errori, ci correggeremo, così come ci aggiorneremo se ci saranno nuove considerazioni. Se avete segnalazioni o anche solo voglia di discuterne con noi, ne saremmo felici e sarebbe un arricchimento.